Non ci credere è il nuovo thriller di Paul Cleave, autore pluripremiato e bestseller internazionale, i cui romanzi sono pubblicati in ben 15 lingue. In Italia Non ci credere è stato pubblicato ad aprile 2016 da Bookme. Lo ha intervistato per noi Giulio Galli, redattore e autore dei thriller Il reality della paura, L’ultimo bersaglio e Tutti i gradini del male.

Lei ha definito Non ci credere il thriller, tra i suoi nove romanzi, che più si è divertito a scrivere. Ci racconta perché?

Una delle ragioni per cui mi sono divertito tanto a scrivere questo romanzo è che c’è stata una fase in cui sembrava che si stesse scrivendo da solo. A volte scrivere può essere un processo laborioso: può capitare di sedere tutto il giorno alla scrivania senza fare alcun progresso significativo, ma Non ci credere scorreva quasi spontaneamente, con estrema naturalezza. Mi ha molto appassionato sviluppare contemporaneamente due linee temporali diverse, sapendo che quello che succedeva nella prima avrebbe determinato l’andamento della seconda. Mi ha aiutato a mantenere alta la concentrazione. Ma forse l’aspetto per me più gratificante in assoluto è stato il poter condividere con i lettori qualcosa della vita dello scrittore. Ho molto amato il personaggio di Jerry, il suo senso dell’umorismo caustico mi ha strappato più di una risata nel corso della scrittura. Ma la sua è allo stesso tempo una storia straziante. Non mi era mai capitato prima di identificarmi a tal punto con uno dei miei personaggi. In un certo senso io sono Jerry – o potrei esserlo, se avessi quarantanove anni e fossi affetto da Alzheimer precoce.

Non ci credere sembra un thriller sofisticato, ma con tratti ironici e autobiografici. Concorda?

Assolutamente. Come ho detto Jerry e io siamo la stessa persona. La sua casa e il suo studio assomigliano ai miei. I quadri che descrive nel romanzo sono gli stessi del mio appartamento. Abbiamo scritto su per giù lo stesso numero di romanzi e fatto tour promozionali negli stessi Paesi. Insomma, abbiamo collezionato esperienze simili, anche se lui ha avuto decisamente più successo di me, il che, confesso, mi rende un pelino geloso. Inoltre ha molti più capelli di me…

Scriviamo lo stesso genere di romanzi, condividiamo le stesse frustrazioni ed entrambi adoriamo il nostro lavoro.

È stato complicato scrivere il romanzo in parte in terza persona, come un autore onnisciente, in parte in forma di diario con il protagonista Jerry Grey che si rivolge al suo pseudonimo letterario Henry Cutter?

L’idea del romanzo in realtà è nata due anni fa. Mi ero sempre chiesto come sarebbe stato leggere i miei romanzi da lettore puro, senza sapere (o, come nel caso di Jerry, senza ricordare) di esserne l’autore. E poi c’è il terrore che un giorno mio padre possa ammalarsi di Alzheimer. Una mattina mi sono svegliato con questi due pensieri in testa e in quel momento la premessa del romanzo ha preso forma. Ho scritto subito il primo capitolo, e lì mi sono fermato.
All’epoca stavo lavorando a un altro progetto e così ho accantonato Non ci credere per qualche mese. Quando ci ho rimesso le mani mi sono accorto di non essere in grado di proseguire. Non sapevo da che parte iniziare con il capitolo numero due. Sono rimasto bloccato per circa un anno; l’idea del libro mi attirava moltissimo, ma non ero in grado di svilupparla. Tutto a un tratto ho avuto l’intuizione di inserire i brani del Diario: Jerry avrebbe potuto rivolgersi al se stesso del futuro. Il giorno successivo ho scritto di getto diecimila parole, e così il giorno dopo ancora. Tempo due settimane e avevo completato la prima metà del romanzo. Scrivere la seconda metà è stato molto più complicato, perché si trattava di trovare la chiave di volta del thriller: il chi e il dove, il perché e il come della faccenda. Ma mi sono divertito moltissimo a farlo. Avevo per le mani un personaggio che poteva esprimersi attraverso due voci diverse. C’era il Jerry del Diario, che stava appena cominciando ad ammalarsi, e il Jerry del “presente”, con l’Alzheimer ormai avanzato. Ci sono parti del Diario scritte da Henry Cutter (lo pseudonimo che Jerry usa per firmare i romanzi) e verso la fine della storia capita che Jerry si rivolga a Henry come se esistesse davvero. Dunque le voci in realtà sono tre o quattro: quattro voci per un unico personaggio.

Porto sempre con me un taccuino che uso per tenere traccia di tutte le idee che mi vengono, e posso garantire che ho preso più appunti durante la stesura di Non ci credere che durante quella di qualunque altro romanzo.

Quanto tempo ha dedicato a questo romanzo, dalla prima parola al visto si stampi?

Da che mi è venuta l’idea del Diario, mi c’è voluto circa un mese per scrivere i primi due terzi. Poi mi sono incagliato di nuovo. Ho impiegato altri due mesi per escogitare un finale adeguato, dopo di che è cominciato il processo di editing. In tutto direi che ci ho messo quattro-cinque mesi, più il tempo speso a lavorare fianco a fianco con i miei editor.

Lei vive in Nuova Zelanda ed è spesso in giro per il mondo, ci descrive la sua vita di scrittore?

Fino a qualche tempo fa passavo gran parte del mio tempo a Londra, ma scrivere là mi risultava difficile. In Nuova Zelanda ho un bello studio pieno di sole, e lavorarci mi dà immenso piacere. Per questo scrivo soprattutto quando sono a casa. Continuo a viaggiare, ma ho rinunciato a scrivere durante le trasferte. La maggior parte dei giorni mi metto al lavoro verso le nove o le dieci del mattino e non smetto fino a sera. Ma qualche volta riesco a scrivere solo per poche ore. Dipende tutto da come procede la scrittura di quel dato romanzo, in quel dato momento.

Immagini di avere davanti una persona curiosa che ha una mezza idea di leggere il suo libro: cosa gli direbbe per convincerlo?

Agli indecisi direi che Non ci credere è un thriller abbastanza unico. Che io sappia non esiste un altro libro con la stessa struttura, in cui il protagonista si rivolge una versione futura di se stesso mentre la sua mente si deteriora ogni giorno di più. Jerry è un personaggio molto coinvolgente, è intelligente, spiritoso e la sua è una storia dolorosa. Leggendo il romanzo capirete cosa si prova ad avere l’Alzheimer, e vi domanderete fino all’ultima pagina se Jerry possa davvero essere un serial killer.

Ha in mente di venire in Italia, prossimamente?

Sono stato in Italia solo una volta, nel 2008. Ricordo di essermi ripetutamente perso in autostrada – e ricordo anche quanto la gente fosse calda e amichevole. Il vostro è un Paese bellissimo. Mi piacerebbe ambientarci un romanzo un giorno, anche se ho un grande attaccamento nei confronti della Nuova Zelanda e mi appassiona far conoscere ai lettori la mia città natale, Christchurch, attraverso le storie che scrivo. Sospetto che prima o poi il mio Paese mi caccerà a causa delle cose terribili che vi faccio accadere nei miei romanzi. In quel caso potrei prendere in seria considerazione di trasferirmi in Italia…