Delle città in cui Giacomo Leopardi si trovò a vivere, nei vari, e vani, tentativi d’allontanarsi definitivamente da Recanati «natio borgo selvaggio» per farsi largo, a suo modo, nel mondo, non c’è forse un luogo che abbia amato meno di Roma. «Città oziosa», «dissipata», «senza metodo», fonte di noia e di noie costanti, popolata da gente insulsa, rumorosa, ignorante, innamorata solo del proprio antico splendore monumentale, la «grande città che non finisce mai» non finisce mai, di fatto, di deludere Leopardi. «La grandezza loro m’è venuta a noia dopo il primo giorno» è il giudizio lapidario di Giacomo espresso in una lettera a Carlo, all’inizio del suo primo soggiorno romano (novembre 1822 – aprile 1823). Tutto il giorno i romani «ciarlano e disputano, e si motteggiano ne’ giornali, e fanno cabale e partiti», credendo di contribuire così al progresso dell’umanità. Con linguaggio vivace e spesso molto diretto, Leopardi riversa nelle lettere da Roma «l’anima sua», che nel carteggio «si espande». Senza trovare però, nel primo e tantomeno nel secondo periodo romano (ottobre 1831 – marzo 1832, al seguito dell’amico Ranieri, trasferitosi in città per amore di un’attrice), una corrispondenza qualunque tra realtà esterna e moti interiori. In questa città vacua e sterminata Leopardi si perde, riuscendo a conservare però limpida e quasi ininterrotta – tra lettere al padre, messaggi agli amati fratelli, celie con confidenti e amici, timidi tentativi di galanteria – quella che lui stesso definisce la comunicazione del cuore.